lunedì 7 maggio 2012

Non e' ancora finita.......

Cerchiamo di mantenere un po' di sangue freddo, domenica sarà sufficiente pareggiare per evitare di retrocedere.
Una situazione già vissuta con Fossati e Spinelli e vissuta più volte. Smile
Il Lecce dovrebbe vincere a Verona e sperare nella contestuale vittoria del Palermo; è una situazione che potrebbe verificarsi, ma le probabilità sono più basse rispetto a quelle relative alle ipotesi favorevoli al Genoa. Smile
I salentini sicuramente sono in condizioni peggiori di quelle dei rossoblu, dovendo scegliere non farei cambio, il destino del Genoa e nelle mani del Grifone, non di altri; nel caso si verifichi l'estremo tanto di cappello a loro e "mal ne incolga" a questa dirigenza che ha portato il Genoa sull'orlo del baratro.
Il vittimismo dei genoani e le loro sindromi non sono gradevolissimi, anzi.
Il Genoa nei finali di molti campionati ha goduto di benevolenza al pari di altre squadre, ne cito alcuni risalenti nel tempo per dare seguito a quelli già proposti. Smile
Campionato 1978/79: vittoria necessaria per la salvezza dalla serie C ottenuta sul campo della SPAL, i ferraresi non avevano giocato certo alla morte.
Campionato 1981/82: pareggio necessario per la salvezza dalla serie B ottenuto sul campo del Napoli, i partenopei non furono certo battaglieri.
Campionato 1988/89: vittoria necessaria per la salvezza dalla serie C ottenuta sul campo del Modena, gli emiliani pur giocandosi il medesimo traguardo non disputarono la gara al meglio, alcuni di loro sembravano svogliati e l'arbitraggio fu a tratti favorevole ai rossoblu.
Campionato 1992/93: pareggio necessario per la salvezza dalla serie B ottenuto al Ferraris contro il Milan stellare degli Olandesi; gli ambrosiani dopo il goal di Papin, stupefatto per lo scarso entusiasmo dei colleghi, furono  assai benevoli.
Campionato 1994/95: vittoria necessaria per accedere allo spareggio, stante l'auspicata sconfitta del Padova in quel di Milano, vittoria ottenuta al Ferraris contro un Torino non molto determinato.
Occorre ricordare come nel corso del campionato di serie C1 l'atteggiamento degli arbitri fu oltremodo riguardoso, la concessione di rigori a favore e l'esibizione di cartellini agli avversari piuttosto frequente. Innocent
La teoria del complotto ai danni del Genoa e dell'attuale rappresentante legale è un comodo alibi, serve a mascherare le falle aperte nello scafo dall'Impareggiabile.
I genoani non penso godano di maggiori antipatie rispetto ad altri, ma crederlo fa comodo, consente di non pensare alle conseguenze di certi atteggiamenti propri.
In ogni caso i "veri genoani" non devono preoccuparsi, nella ipotesi si debba affrontare una retrocessione le colpe saranno dei cattivissimi Ultrà, dei Maniman, dei livorosi, della Federazione, degli arbitri, del Vaticano, della CIA e del KGB, dei Martinitt e della bocciofila dello Zerbino... non certo di Henry Plusvalenza che tanto bene vuole al Genoa. Smile
Allestirà uno squadrone e non solo tornerà nella massima serie, ma fra farà tremare il mondo.
La Stella, la Champions, l'Intercontinentale saranno presto in bacheca; Messi non arriverà perché è piccolino, ma un nuovo Pratto, strappato al Barcellona ed al Man United non potrà mancare e farà sfracelli. Smile

In ritirata dalla linea del Tagliavento

Lungo la linea del fiume Tagliavento, la finta Maginot Genoa finge di reggere per una mezzoretta sotto il mortaio nemico.
Non ne avrebbe avuta l’intenzione e forse avrebbe anche evitato morti e feriti.
Le trincee poste dal Generale De Canio sono in realtà variabili a seconda dell’irruenza dell'avversario.
Possono addirittura scomparire all’istante e ZAC campo aperto, quasi a sorprendere l’avversario ai trenta metri.
“Ma davvero è così semplice arrivare al limite?” si chiedono gli austroungarici condotti dal borbone Di Natale.
Le retrovie non esistono, ma non è mica colpa loro.
Ditelo a chi li ha mandati in Friuli, come nel resto d’Italia, allo sbaraglio. Chiedetelo al sergente Svedesoni e al brasiliano triste.
Ma soprattutto, cercate di capire perché il rancio se lo finiscono tutto sempre e solo il Carrarmato slovacco e il francesone molliccio.
Questa è la chiave della battaglia persa, la penultima da perdere tra quelle a disposizione.
Lo slovacco retrocede senza avvisare e si becca la diserzione, il molliccio s’insacca da solo come un San Daniele profumato e poco bellico. Il combattimento, se tale lo vogliamo chiamare, si conclude qui, prima ancora che sul Tagliavento si consumi un atto di vigliaccheria con pochi ma gustosi precedenti che ci ricordano il caporale Criscito e il reprobo soldato Campagnaro.
Tenente e caporal maggiore si mandano a quel paese (ferma è la disputa tra Gemona e Cormons, per aggiudicarsi la paternità) e il fiume (Tagliavento) siccome immobile dato l’immortal fischietto, capisce mona per toma e lascia la brigata in nove. Il Piave mormorava, la Brigata Grifone urla, ma “chi me sente” come cantava uno che alla guerra non ci andava neanche sulla millecento.
Il resto è poca cronaca consegnata a bollettini di squalifiche e pensieri all’ultima offensiva che speriamo sia roba da ritirate amichevoli.
Chissà se il fiume Tagliavento non abbia evitato alla banda una ritirata che già dall’inizio degli scontri appariva inevitabile.
Quel che è certo è che le porte chiuse di Brescia non potranno dare l’addio a uno dei più grandi giocatori che abbiano indossato la nostra casacca negli ultimi decenni. Tenente El Trenza, grazie di cuore e peccato per le ultime pallottole negate.
Per il resto, il Friuli ringrazia e adesso tutto o quasi rimane in mano dell’anarchica ma patriottica (e non sembri un controsenso) Colonna Miccoli.
Dopodiché ogni battaglia sembrerà superflua, davanti alla consueta noia dell’armistizio estivo, con le sue trattative di resa e di rimpolpo, i rimpasti e il leccarsi ferite che ogni anno sembrano miracolosamente rimarginarsi, ma che ormai sono canyon in cui ci aggiriamo come coyotes.

Rettifica agli errori storici di Curzio Maltese (il Venerdì di Repubblica)

Fermiamo il "tiro al Genoa e al Genoano"

Egregio Sig. Maltese,
va bene che il tiro al Genoa e al Genoano pare esser diventato lo sport retorico più praticato in Italia, ma siamo restati letteralmente allibiti nel legger quel che lei ha scritto sul Venerdì del 4 maggio scorso.

Ovvero "I tifosi del Genoa...sono pronipoti del genoani che nel '25, alla stazione di Torino, spararono colpi di pistola ad altezza uomo per salutare l'arrivo dei tifosi del Bologna, rivale per lo scudetto".
Ci si poteva aspettare di tutto, ma non un ribaltamento completo delle responsabilità di quell'episodio, ossia che i Genoani aggrediti fossero "magicamente" trasformati in aggressori e i "pistoleri" bolognesi diventassero, "oplà", addirittura "vittime". Tra l'altro l'unico ferito dai colpi di pistola, sparati tutti dai bolognesi, fu il portuale genovese Francesco Tintorio!
Vabbè, sorvoliamo sul fatto che tali "vittime" fossero il nerbo delle squadracce nere del gerarca fascista Leandro Arpinati, di cui speriamo abbia sentito parlare, dato che divenne anche presidente della F.I.G.C. e che tanto fece che, grazie alle intimidazioni violente, tipiche dell'epoca riuscì a scippare lo scudetto in questione al Genoa. E passi che, dopo il 25 Aprile, con il solito sistema all'italiana del "gabbata la festa, gabbato lo santo" , nessuno, F.I.G.C. e Bologna compresi, si sia mai degnato di ridare il maltolto al Genoa! Anche La Repubblica ne ha fatto più volte cenno!
Sull'episodio esiste un'ampia ed argomentata bibliografia giornalistica, storica, in rete, da consultare ed evitare una distorsione così assurda dei fatti.
Per non appesantire troppo, ci limitiamo a citare l'autorevole "La Stampa" di Torino, dunque doppiamente al di sopra delle parti.
Peccato veniale il fatto che i tifosi del Genoa non "salutarono l'arrivo" dato che l'episodio avvenne la sera, alle ore 20, a partita ampiamente finita, quando i due treni speciali erano fermi in stazione, in attesa di ripartire per le rispettive destinazioni.
Dai finestrini del treno occupato dai supporters bolognesi partì un colpo di rivoltella. Fu come il segnale di una sparatoria. Difatti subito una ventina di colpi seguirono a quel primo, sparati tutti - a quanto si afferma in base all'inchiesta promossa dall'autorità di polizia - dai finestrini del treno bolognese, contro il treno in attesa di partire per Genova....fortunatamente una sola persona era rimasta colpita: precisamente un viaggiatore del treno diretto a Genova.
Siamo, dunque, certi che vorrà porre rimedio alla cantonata presa (siamo sicuri in buona fede), rettificando quanto da lei erroneamente scritto, per correttezza nei confronti dei lettori, della verità storica e della Comunità Genoana che ci onoriamo di rappresentare
Cordialmente
Fondazione Genoa 1893

lunedì 7 febbraio 2011

Genoa Cfc Tribute to Fabrizio De Andre'

Storia del Genoa 5

TANTO RUMORE PER NULLA

Nell'estate del 1930, arriva una notizia bomba: il Genoa ha acquistato Stabile, detto El Filtrador, una delle maggiori stelle del calcio mondiale. L'attaccante argentino, però, non riuscirà mai a calarsi nella realtà italiana. Il Genoa arriva quarto nel 1930-31, ma il dissidio tra i giocatori e Szekany è ormai evidente: la società manda via il tecnico e opta per la soluzione interna Stabile-Burlando. Ne deriva un pessimo undicesimo posto.

Nell'estate del 1930, una vera bomba mise a soqquadro l'ambiente calcistico nazionale: il Genoa, appofittando della normativa sugli oriundi, tesserò Guillermo Stabile, attaccante della nazionale argentina e dell'Huracan, uno dei più rinomati bomber della scena internazionale. Insieme a lui, arrivavano dall'Argentina i mediani Orlandini e Giglio, prelevati dal Deportivo e il terzino Pratto, anche lui dell'Huracan. L'arrivo di Stabile, proiettava il Genoa tra le maggiori favorite per lo scudetto e seminava entusiasmo in una tifoseria che ormai non nascondeva le sue mire. Purtroppo le cose andarono in maniera molto diversa. Un pessimo inizio, che vide la squadra di Szekany accumulare un grande distacco dalla vetta, lasciò ben presto i grifoni fuori dalla lotta per il titolo divampata tra Juventus e Roma.
L'esordio di Stabile, avvenuto all'ottava giornata, dette una scossa ad una squadra sull'orlo della crisi, portando una ventata di entusiasmo in un ambiente che tendeva pericolosamente alla depressione. In quella gara, El Filtrador segnò una straordinaria tripletta che sembrava la conferma delle eccezionali referenze che ne avevano accompagnato l'avvento, ma già nella successiva trasferta romana contro la Lazio, la cruda realtà venne alla luce. Quel giorno, infatti, i biancocelesti misero alle costole di Stabile un mastino come Furlani, il quale ben presto impedì all'attaccante argentino ogni movimento, vanificando in tal modo la mole di gioco che la squadra creava. Il 5-0 della Rondinella, indusse Szekany a modificare qualcosa nell'atteggiamento dei suoi giocatori, spingendoli a cercare altre soluzioni offensive. Il risultato fu ottimo, tanto che il Genoa, che alla settima giornata aveva otto punti di distacco dalla vetta della classifica, terminò al quarto posto a soli sette punti dalla Juventus. Naturalmente, a risentire del mutamento tattico fu Stabile, il quale alla fine della stagione poteva vantare soli sei goal in tredici partite. Anche i suoi connazionali, dimostrarono ben presto di non essere fulmini di guerra: Orlandini e Pratto, più il secondo del primo, arrivarono ad una striminzita sufficienza, mentre Giglio, che pure poteva vantare trascorsi col Boca Juniors, non riuscì mai a dimostrare di poter essere competitivo in un torneo difficile come il nostro. Molto meglio andò un altro rinforzo estivo, quel Berardo Frisoni che, acquistato dal Brescia, formò con Albertoni e Barbieri una solida mediana, capace di filtrare il gioco avversario e di rilanciare nel modo più appropriato per gli avanti rossoblù. A frenare parzialmente il cammino del Genoa, fu anche il dissidio ormai aperto tra Szekany e lo spogliatoio: la società decise di tagliare la testa al toro allontanando Szekany e puntando su una soluzione interna che prevedeva Stabile e Burlando in panchina.
La campagna trasferimenti vide l'arrivo di Mazzoni, interno modenese che si era messo in grande evidenza tra i canarini e di Esposto, attaccante argentino prelevato dall'Huracan, mentre assai più corposo era il capitolo delle cessioni. Partivano, infatti, Ercole Bodini, ceduto al Bari, l'ottimo Albertoni, alla Pro Patria, il terzino Lombardo, che dopo l'avvento di Pratto aveva trovato poco spazio, e l'interno Notti, all'Alessandria. Soprattutto la partenza di Albertoni destava seri dubbi, in quanto rendeva chiaro il proposito di puntare su Orlandini e Giglio, dei quali però era ormai abbastanza chiara la tendenza ad estraniarsi dalla contesa quando il clima si faceva arroventato. In un campionato dove l'agonismo faceva spesso premio sulla tattica, la mossa di Stabile e Burlando sembrava azzardata e l'inizio del torneo 1931-32 si incaricò di rendere subito evidente questa realtà. Già all'undicesima giornata, il Genoa si trovava a sette lunghezze di distacco dal Bologna capolista, ma il peggio doveva ancora arrivare e fu ancora una volta Roma, stavolta il campo di Testaccio, a rendere nel modo più chiaro lo stato effettivo delle cose. Il consueto furore agonistico che la Roma usava squadernare quando giocava nella sua tana, incenerì ogni pallida resistenza genoana, producendo un sonoro 6-0 che non fu ancora più schiacciante solo perché dopo aver segnato cinque reti in cinquanta minuti, i capitolini non vollero infierire nella ripresa su una squadra palesemente in crisi. La dirigenza cercò di correre ai ripari, associando l'ungherese Karl Rumbold alla guida tecnica, ma ormai il danno era stato fatto: il Genoa chiuse all'undicesimo posto un mediocrissimo torneo in cui l'unica nota lieta fu la conferma ad alti livelli di Mazzoni, capace di mettere a segno undici reti che evitarono una ulteriore caduta le cui conseguenze avrebbero potuto essere devastanti.



COMINCIA IL DECLINO

La dirigenza conferma Rumbold, ma procede ad una campagna acquisti minimale. Arriva l'ennesimo bidone argentino, Ganduglia, ma vengono ceduti Banchero e Levratto. Per fortuna del Genoa, esplode Esposto, le cui reti evitano ulteriori sofferenze. L'ottavo posto finale rende però evidente che il sogno di raggiungere il decimo scudetto, è destinato a rimanere tale e che bisogna ridimensionare gli obiettivi.

Il pessimo comportamento della squadra nel torneo appena concluso, spinse la dirigenza ad accantonare la soluzione interna puntare sul solo Rumbold, il quale aveva dimostrato la sua competenza nell'anno appena concluso e sembrava il più adatto a cercare di rimettere insieme i cocci di una squadra che sembrava aver perso la bussola. Se la scelta di Rumbold poteva essere considerata logica, assai meno avveduta sembrò la valutazione tecnica che dette luogo ad una campagna acquisti minimale, a seguito della quale arrivarono l'argentino Ganduglia dal Ferrocarril, il mediano Godigna dal Perugia e l'ala Ferrari dalla Roma. Proprio alla Roma fu invece ceduto Elvio Banchero, mentre verso Milano, direzione Ambrosiana, partiva Levratto, reputato ormai sul viale del tramonto.
Se la partenza di Levratto, che negli ultimi due anni aveva nettamente abbassato le sue consuete medie realizzative, poteva colpire più dal punto di vista affettivo, ben più grave poteva essere considerata quella di Banchero, che negli anni precedenti era stato una vera e propria colonna della squadra, tanto da arrivare alla maglia azzurra. La campagna acquisti, sommata al non eccelso torneo precedente, provvide a seminare grandi dubbi nella tifoseria, proprio in considerazione di acquisti che non solo non sembravano poter garantire un salto di qualità, ma neanche una navigazione tranquilla in un torneo pieno di insidie, nel quale squadre dalla non precisa identità tecnica potevano rapidamente naufragare. E a rendere ancora più dubbioso l'ambiente genoano, provvedeva l'ostinazione con la quale la dirigenza continuava ad insistere sulla fallimentare pista argentina, prestandosi alle manovre di intermediari senza scrupoli che sino ad allora avevano proposto giocatori che avevano regolarmente fallito o mostrato grandi difficoltà ad adeguarsi alla nuova realtà. Ganduglia era l'ennesima scommessa in tal senso e, visto l'esito dei suoi predecessori, i dubbi sembravano più che giustificati. Oltre a ciò, a destare preoccupazione era anche la valutazione che la campagna acquisti sembrava fare circa la qualità del materiale tecnico messo a disposizione di Rumbold. Le acquisizioni fatte, sembravano di puro contorno e sarebbero state giustificate soltanto in considerazione di una rosa molto più valida di quella esistente. Ferrari era un interno che nella sua precedente militanza romanista non aveva mostrato grandissimi numeri, mentre per Godigna pesava l'incognita del salto di categoria.
All'atto pratico, proprio Godigna, il meno accreditato dei tre, si rivelò l'acquisto più azzeccato, apportando alla mediana una solidità che risultò preziosa in un anno in cui la qualità tecnica della rosa era stata praticamente azzerata dalle cessioni di Levratto (il quale all'Ambrosiana aveva ritrovato d'incanto il rendimento dei giorni migliori) e di Banchero. Ganduglia, come era facilmente prevedibile, era rapidamente naufragato, frenato dall'incapacità di adeguarsi alla durezza delle difese italiche, mentre Ferrari aveva finalmente estratto dal suo sacco doti sino ad allora rimaste in ombra, garantendo un discreto rendimento e formando una buonissima coppia di interni col solido Mazzoni. Il rientrante Stabile, a sua volta, aveva confermato pregi e difetti della prima stagione, segnando sei reti in quattordici gare disputate e alternando ottime gare a partite in sordina che coincidevano con quelle in cui la spada prevaleva sul fioretto. Per fortuna del Genoa, proprio in quell'anno era esploso Esposto, autore di 15 reti e di una serie di partite di alto livello tecnico, cosicchè alla fine di una stagione non proprio esaltante, la squadra di Rumbold riuscì a migliorarsi leggermente rispetto al 1931-32, terminando ad un ottavo posto che aveva comunque evitato maggiori sofferenze. Era ormai chiaro, però, che il sogno di raggiungere il decimo scudetto era destinato a rimanere tale e che gli obiettivi dovevano essere decisamente ridimensionati.



PER LA PRIMA VOLTA IN SERIE B

Rumbold viene avvicendato da Nagy. La campagna acquisti ridotta all'osso, col solo acquisto di Amoretti, prepara il terreno per il calvario del 1933-34. La fragilità della squadra e la totale assenza di risultati in trasferta, uniti all'anno orribile degli attaccanti, portano ben presto la squadra sul fondo della classifica. Il verdetto arriva a tre giornate dal termine, con la sconfitta di Palermo: il Genoa è per la prima volta in serie B!

Se era plausibile che gli obiettivi fossero ridimensionati, in considerazione di un deciso scadimento del materiale tecnico, nessuno poteva però immaginare quello che sarebbe successo di lì a poco. Il primo grande errore fu compiuto dalla dirigenza, che invece di confermare Rumbold, decise di avvicendarlo con un altro ungherese, quel Joszef Nagy esonerato l'anno precedente dal Bologna. Probabilmente, alla base di questo errore ci fu una sopravvalutazione delle forze a disposizione, che spinse qualcuno a ritenere che con un altro trainer si potesse risalire qualche posizione nella scala dei valori. Invece, Rumbold aveva tratto il massimo da una squadra che tecnicamente era ormai lontana parente di quella che aveva fatto sognare la tifoseria e soltanto una accorta campagna di rafforzamento avrebbe potuto ridare linfa ad una rosa che andava sempre più impoverendosi. Accadde esattamente il contrario. La campagna acquisti si ridusse ad un solo vero acquisto, quello del promettente portiere Amoretti, prelevato dal Padova, il quale andava a prendere il posto di Bacigalupo. Sul fronte delle cessioni, c'era inoltre da registrare quella di Frisoni, che sul momento passò abbastanza inosservata, ma che nel prosieguo della stagione riverberò effetti negativi pesantissimi sul rendimento della mediana.
Una campagna acquisti così ridotta non poteva che rafforzare i timori della parte più accorta della tifoseria, anche se si sperava sempre in una esplosione di Stabile e degli altri numerosi argentini che avrebbe potuto ovviare all'immobilismo societario. La buona partenza, che vide gli uomini di Nagy sconfiggere in casa la Pro Vercelli e pareggiare a reti bianche a Napoli, sembrò diradare i primi timori, ma poi alla terza giornata arrivò la Triestina a suonare il primo campanello di allarme. La rete segnata da Rocco nel primo tempo, bastò ai giuliani per violare il campo genoano, ma soprattutto inaugurò un periodo nel corso del quale i rossoblù misero in mostra tutti i difetti di una squadra mal costruita in estate. Già alla sesta giornata, dopo il 3-1 rimediato ad Alessandria, Stabile e compagni si ritrovarono in fondo alla classifica. La successiva sconfitta di Roma con la Lazio inzeppata di brasiliani, fu riscattata una settimana più tardi dalla vittoria interna col Bologna che, accoppiata allo 0-0 di Livorno, sembrò il preludio ad una rapida risalita in classifica. Ancora una vittoria interna, sul Brescia, spinse la squadra di Nagy a metà classifica, ma all'undicesima giornata arrivò la tremenda scoppola di Torino coi bianconeri, un 8-1 maturato quasi completamente nella ripresa che era la più eloquente conferma della fase di involuzione della squadra.
Proprio il rendimento esterno divenne il tallone di Achille dei grifoni. Mentre infatti in casa qualche vittoria ridava linfa alle speranze di poter terminare il torneo senza troppi danni, ogni volta che il Genoa usciva dai confini liguri arrivavano terrificanti scoppole. Il 5-0 di Milano con l'Ambrosiana, il 3-1 di Torino coi granata, il 2-0 di Vercelli, la dicevano lunga sulla fragilità di una squadra che non riusciva a reagire psicologicamente alle avversità. Il sempre ottimo rendimento di Mazzoni, fu vanificato dall'annata terribile in cui incapparono gli attaccanti, a partire da Esposto, lontano parente del giocatore che l'anno prima aveva fatto mirabilie. Stabile non riuscì mai ad elevarsi dalla mediocrità, tanto che la squadra si trovò ben presto priva di un efficace terminale offensivo, aggiungendo questo difetto alla scarsa tenuta dei reparti arretrati. In particolare, si fece sentire l'assenza dell'ottimo Frisoni, che non era stato rimpiazzato adeguatamente, tanto che anche Godigna vide calare fortemente l'ottimo rendimento prodotto nell'anno precedente. Con l'inizio del girone di ritorno, vennero al pettine tutti i nodi che non erano stati sciolti in estate. Alla sconfitta di Vercelli, fece seguito il deludente pareggio interno col Napoli, ottenuto solo grazie ad un serrate finale che aveva prodotto la rete di Godigna. Ancora una rete di Rocco, condannò poi gli uomini di Nagy all'ennesima sconfitta esterna, seguita dal 5-0 interno col Casale che risvegliò le speranze. Era solo una illusione, come dimostrò il prosieguo del torneo. Ad ogni vittoria interna, faceva seguito regolarmente un tonfo esterno e quando la Lazio violò il terreno di Genova, anche i più ottimisti dovettero arrendersi all'amara realtà di una squadra che non aveva la necessaria forza per ritirarsi in piedi. Il calvario dei grifoni proseguì domenica dopo domenica, terminando il 29 aprile del 1933 con la sconfitta di Palermo che condannava matematicamente gli stessi alla prima retrocessione della storia.

Storia del Genoa 4

LA GRANDE BEFFA

Il Genoa è ormai la squadra da battere, per tutti. La finale con il Savoia si rivela una pura formalità. Il Genoa dei genovesi. Un epilogo incredibile: le tre finali contro il Bologna. Lo spareggio di Milano si trasforma in una vera e propria bolgia, per la presenza di squadristi in campo. Arpinati muove le sue pedine e il Bologna la spunta.

Ormai, il Genoa era la squadra da battere, come dimostrò anche nella stagione 1923-24. Arrivato primo nel Girone A della Lega Nord, il Genoa superò il Bologna nelle due finali di Lega per concludere la vittoriosa galoppata con le due finali nazionali con il Savoia di Torre Annunziata che aveva sorprendentemente eliminato le romane Lazio e Alba. L'ultima partita, quella che sancì la definitiva vittoria del titolo, fu giocata il 7 settembre 1924, il trentunesimo compleanno del Grifone. Ad aumentare la soddisfazione, c'era la constatazione che quello degli scudetti degli anni Venti, era un Genoa formato soprattutto da genovesi. Gli unici provenienti da fuori regione, erano il milanese De Vecchi, l'anziano Mariani e il torinese Leale. Il 1924, vide tutta una serie di novità nella rosa di prima squadra, a partire da Sardi che, per sopraggiunti limiti d'età, gettava la spugna, sostituito da quel Cesare Alberti, attaccante del Bologna, ceduto gratuitamente al Genoa in quanto ritenuto finito a causa della rottura del menisco. Operato dal professor Drago (intervento eseguito per la prima volta su di un atleta in Italia) Alberti qualche mese dopo rientrò in campo risultando fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nei primi mesi del 1926 per una infezione virale, una pedina importantissima nello scacchiere di Garbutt. Alcuni incidenti di percorso, nelle eliminatorie, fecero da prologo ad un finale di campionato a dir poco sorprendente. Il Genoa si ritrovò per la terza volta di fronte al Bologna. Nella prima finale disputata nel capoluogo felsineo si imposero i rossoblù genovesi per 2 a 1. Nel ritorno i Grifoni, troppo sicuri del fatto loro, come era successo quattro anni prima con la Pro Vercelli, si fecero battere a domicilio con lo stesso risultato. La "bella" venne disputata il 7 giugno sul campo (neutro) del Milan strabordante di tifosi di entrambe le squadre (arrivati con treni speciali) e di molti milanesi. Ben presto un gran numero di squadristi bolognesi andarono a schierarsi tutt'intorno al rettangolo di gioco. L'arbitro Mauro diede il fischio d'inizio della partita sperando di veder arrivare i duecento agenti promessigli per ristabilire l'ordine, che però non giunsero mai. Alla fine del primo tempo il Genoa conduceva per 2 a 0 (reti di Catto e Alberti). Al 16' della ripresa successe il fattaccio: De Prà, con un balzo felino, riuscì a deviare sull'esterno della rete un bolide di Muzzioli. Mauro prima assegnò il calcio d'angolo, ma poi, a causa della pressione insostenibile del pubblico di fede bolognese, entrato sul terreno di gioco per andare a reclamare il punto insieme ai propri giocatori convinti che il pallone avesse superato la linea fatale prima di finire fuori, dopo aver tenuto duro per tredici interminabili minuti, assegnò la rete al Bologna fra l'incredulità dei giocatori e dei supporter genoani. Premurandosi però di sussurrare a De Vecchi che la partita era da considerare conclusa. Quando a sei minuti dalla fine Schiavio siglò la rete del pareggio mentre Pozzi tratteneva vistosamente De Prà onde impedirgli la parata, De Vecchi e i suoi non rientrarono in campo per i supplementari, convinti che la Disciplinare avrebbe ristabilito la verità. Ma Leandro Arpinati, federale di Bologna e deus ex machina della Federazione calcistica, si attivò con tutta la sua potenza per cambiare le carte in tavola. L'arbitro Mauro, evidentemente minacciato, nel suo rapporto cambiò completamente la versione dei fatti trasformando un'invasione in piena regola in una "presenza di alcuni estranei sul terreno di gioco". La partita doveva così essere ripetuta il 5 luglio a Torino. E terminò ancora in un pareggio (1-1) questa volta in maniera regolare, anche dopo i tempi supplementari. Ma ormai gli animi si erano surriscaldati. Alla stazione di Porta Nuova, nell'immediato dopo partita, da un finestrino del treno speciale dei tifosi bolognesi furono sparati alcuni colpi di pistola verso il treno dei genovesi, fra i quali uno rimase ferito. Il Genoa protestò, inoltrò una richiesta ufficiale perché venissero puniti i colpevoli. La Federazione, ormai nel marasma, non decise nulla. Alla fine i dirigenti genoani si rifiutarono di disputare altri incontri finché le cose non si fossero definitivamente chiarite e ordinarono il "rompete le righe" ai loro giocatori. Dello scudetto 1924-25 se ne sarebbe riparlato in autunno. Ma era un tranello. Improvvisamente da Roma giunse un diktat: la finale si sarebbe disputata improrogabilmente il giorno dopo (18 agosto) alle sette del mattino a porte chiuse allo stadio Vigentino nella periferia milanese. Se il Genoa si fosse rifiutato di giocare sarebbe stato radiato dalla Federazione. I giocatori, praticamente già tutti al mare, furono richiamati in gran fretta, mentre i bolognesi, avvertiti per tempo, avevano continuato ad allenarsi per un mese intero. Il risultato fu scontato: i rossoblù di Garbutt, dopo aver cercato disperatamente di pareggiare la rete segnata da Pozzi al 27' del primo tempo (i petroniani erano rimasti in dieci per l'espulsione di Giordani reo di un fallaccio su Santamaria), furono beffati in contropiede a cinque minuti dalla fine.



L'ADDIO DI GARBUTT

De Vecchi lascia la Nazionale. Arriva il re dei bomber, Felice Levratto. Ecco il professionismo. Il Genoa è costretto a inserire il fascio littorio sulla maglia e a cambiare la sua ragione sociale, diventando FC Genova. Ma il peggio deve ancora arrivare: settori fascisti della società costringono Garbutt a lasciare, in nome dell'autarchia.

Il 1925 era stato l'anno dell'ultima partita di capitan De Vecchi in Nazionale dopo 31 partite con la maglia azzurra, nel corso delle quali il fortissimo difensore aveva dispensato il suo altissimo magistero calcistico anche a livello internazionale. Ma fu anche l'anno dell'arrivo in rossoblù di un nuovo fuoriclasse. Fisico possente, scatto micidiale e tiro al fulmicotone: si trattava dell'ala Felice Levratto, uno dei più celebri sfondareti del calcio d'epoca, acquisito dal Verona. Intanto però le carte si rimescolavano in maniera molto profonda perchè cominciavano le defezioni di alcuni fra i maggiori e più celebrati protagonisti degli ultimi anni: Leale aveva appeso le scarpe al chiodo per dedicarsi alla politica, Bellini passò all'Inter mentre anche Bergamino e Santamaria si ritirarono dall'attività. Le grandi novità interessavano anche il settore dirigenziale ove, nel frattempo, anche il presidente Guido Sanguineti aveva dato temporaneamente le dimissioni per seguire le sue aziende in Sudamerica.
Il 1926 vide una grande novità, l'introduzione dei contratti ufficiali fra le società e i calciatori, che istituzionalizzava il professionismo, prendendo atto di una pratica ormai in voga e portandola alla luce del sole. Per un vero e proprio paradosso, il Genoa, che era stato il capofila dello stesso, nell'era del professionismo non sarebbe più riuscito a ripetere i successi inanellati nell'era dilettantistica. Nei campionati 1925-26 e 1926-27 il Genoa non brillò particolarmente seppur partecipando ai gironi finali in entrambe le stagioni e piazzandosi rispettivamente al terzo e al quarto posto. Il fascismo intanto stava pesantemente contaminando (le finali del '25 avevano rappresentato un primo clamoroso segnale) anche il mondo del calcio, avendone intuito l'importanza propagandistica. Il Genoa fu costretto prima ad inserire il fascio littorio sul proprio stemma, poi ad italianizzare nome e ragione sociale che divennero Genova 1893 Circolo del Calcio. Il peggio era però che alcuni dirigenti genoani, avevano deciso stoltamente di adeguarsi all'autarchia di moda e, dovendo per forza mettere un italiano sulla panchina genoana, avevano spinto lo "straniero" Garbutt a rassegnare le dimissioni. Era la fine di un'epoca, la più bella della storia genoana. Lo sostituì De Vecchi: dapprima l'anziano capitano fu giocatore-allenatore poi, dal dicembre del '28, diede ordini solo dalla panchina. Nel frattempo (il 7 giugno 1927) era stato presentato il progetto per il nuovo stadio di Marassi.



LA FINE DEL GRANDE GENOA

Mentre il calcio italiano si riorganizza in vista del girone unico, il Genoa continua a battersi con grande onore. L'addio di De Vecchi segna la fine di un'epoca. Il Genoa fa il suo esordio in Coppa Europa. Una ottima campagna acquisti porta il Genoa vicino alla stella, ma un errore di Banchero dal dischetto fa svanire il sogno.

Intanto procedeva la riorganizzazione dei tornei nazionali che doveva portare al varo del torneo unico, ed era iniziato il campionato con due gironi nazionali e un girone finale a 6 squadre. Il comportamento del Genoa in questa fase di transizione fu onorevole. Gli anni del dominio incontrastato erano ormai un ricordo, ma la squadra continuava a battersi ad alti livelli. Nel 1927-28, arrivato al girone finale, dovette cedere il passo al Torino del celebre Trio per due soli punti, in un torneo che aveva visto Levratto segnare ben 20 reti in 27 partite. Nel 1928-29 aumentarono ancora le partecipanti al massimo campionato: 16 per ciascuno dei due gironi nazionali le cui rispettive vincitrici si incontreranno in due finali. Ma il Genoa fu solo quarto nel suo girone. Fu quello il campionato dell'addio al calcio giocato di De Vecchi e di Catto (per un brutto incidente al menisco), mentre Burlando diradava notevolmente le sue presenze in prima squadra. Ma fu anche l'anno in cui il Genoa cadde nella sfera politica del fascismo: il 19 febbraio 1929 Giorgio Molfino, segretario politico del GUF, fu invitato ufficialmente a far parte del consiglio della società. Prima ancora che il campionato avesse termine i rossoblù parteciparono allo spareggio con il Milan per poter disputare la Coppa Europa, l'antenata della Coppa UEFA di oggi (la Coppa dei Campioni dell'epoca era chiamata Coppa Internazionale). Dopo due pareggi - 2-2 a Milano, 1-1 a Genova dopo i supplementari e mancando il tempo per una terza finale, le due squadre dovettero affidarsi al sorteggio, che favorì il Genoa. Ma quella prima esperienza in una competizione europea (cui partecipa anche la Juventus) ebbe termine al primo turno quando il Genoa fu sconfitto a Vienna dal Rapid, una delle più celebrate squadre dell'epoca, per 5 a 1. Nel ritorno a Marassi comunque il Genoa si lanciò all'attacco dal primo minuto giocando una generosissima e sfortunatissima partita, senza riuscire a schiodare il risultato dallo zero a zero iniziale (e colpendo ben quattro pali). A settembre la svolta: la Federazione - come già programmato molti mesi prima - dette il via al campionato a girone unico nazionale. E la nuova formula parve portare fortuna al Genoa forte di una squadra piuttosto ben assortita. La campagna acquisti vide l'arrivo del centromediano Albertoni, del portiere Bacigalupo e dell'attaccante Banchero. Con questi elementi base il Genoa disputò un notevolissimo campionato che lo portò ad un soffio dallo scudetto. Il sogno della stella si dissolse in una incredibile partita, la terzultima, giocata proprio contro la capolista Ambrosiana. Quel giorno era la festa dell'Aviazione e prima dell'incontro alcuni velivoli si esibirono in acrobatiche evoluzioni proprio sopra lo stadio. Uno degli aerei avrebbe dovuto lanciare sul prato il pallone della gara con un paracadute. Ma una delle tribune, stracolma di spettatori, crollò e nell'incidente rimasero ferite ben 167 persone tra cui due genovesi. Molti spettatori, nel fuggi fuggi generale, si riversarono sul terreno di gioco. Nonostante tutto la partita venne fatta disputare lo stesso (alle 17 e 20). Al quarto d'ora il Genoa era già in vantaggio di due goal grazie ad altrettante prodezze di Levratto e Bodini. Meazza dopo pochi minuti accorciò le distanze, ma fu ancora Levratto, poco prima della mezz'ora, a riportare il distacco dai nerazzurri a due lunghezze. Dopo tre soli minuti Meazza ristabilì le distanze, replicando al decimo minuto della ripresa. Ad agevolare il suo compito fu anche l'infortunio occorso a Bacigalupo poco prima del pareggio dell'Ambrosiana in uno scontro con lo scatenato Meazza. Il numero uno rossoblù era rimasto stordito e non si riebbe completamente (all'epoca non esistevano le sostituzioni) per tutto il resto dell'incontro. Anzi, ad un minuto dal termine - ancora sotto choc - si fece espellere per aver assestato un pugno all'interista Blasevich che lo aveva caricato piuttosto rudemente, raggiungendo Allemandi che lo aveva preceduto di pochi minuti. A rendere ancora più acuti i rimpianti del Genoa fu però il rigore fallito al 40' della ripresa da Banchero. Il Genoa, dopo il pareggio con l'Ambrosiana, vinse i due rimanenti incontri senza però riuscire ad agguantare i nerazzurri che si aggiudicarono il titolo con sole due lunghezze sui grifoni (50 e 48 punti) secondi assoluti. Era il canto del cigno del grande Genoa. Già nel febbraio dello stesso anno De Vecchi - ai ferri corti con la nuova dirigenza - aveva rassegnato le dimissioni. Fu sostituito da un tecnico magiaro, Geza Szekany. Fu in realtà un ottimo allenatore, ma la sua originalità lo rese ben presto inviso ai giocatori.

Storia del Genoa 3

LA GRANDE GUERRA

Il calcio lascia il posto alle armi: scoppia la prima Guerra Mondiale. Anche il Genoa è costretto a versare il suo contributo di sangue alla vittoria dell'Italia. Muoiono Luigi Ferraris, Adolfo Gnecco, Carlo Marassi, Alberto Sussone e Claudio Casanova. Muore anche Spensley, mentre soccorre un soldato tedesco ferito oltre le linee.

Per quasi quattro anni (dalla primavera del 1915 all'inverno 1918) l'attività calcistica fu pressoché abbandonata. Molti atleti fecero quello che facevano milioni di giovani in tutta Europa, arruolandosi e andando a combattere una terribile guerra di trincea, che vide molti di loro non tornare a casa o tornarci con gravi mutilazioni. Anche il Genoa, come del resto le altre società italiane, dovette pagare il suo tributo di sangue alla Grande Guerra. Il primo a cadere fu Luigi Ferraris (cui sarebbe poi stato intitolato lo stadio di Marassi), poi il portiere Adolfo Gnecco, l'ala Carlo Marassi, l'attaccante Alberto Sussone e il terzino Claudio Casanova, deceduto a Genova per i postumi delle ferite riportate in battaglia. Se è però odioso fare paragoni in questi casi, non si può non mettere in rilievo che il vuoto più grande venne sicuramente lasciato da James Spensley il quale si era arruolato come ufficiale medico nell'esercito britannico e fu ferito in Germania mentre, in linea col suo carattere, stava generosamente soccorrendo un soldato tedesco oltre le linee. Spensley spirò il 10 novembre del 1915 dopo oltre un mese di agonia nell'ospedale militare di Magonza. Venne sepolto - dove riposa tutt'ora - con gli onori militari nel cimitero di Kassel.
Proprio al fine di ricordare il grande contributo dato dalla società rossoblù alla vittoria ottenuta dal nostro paese, il 24 maggio 1920 venne inaugurata nelle tribune dello stadio una lapide commemorativa dei 25 soci del Genoa caduti nel corso del conflitto. Ma oltre ad essi, va ricordato un altro genoano, che già era stato calciatore fra le fila dei ragazzi di Spensley vincitori del primo titolo del campionato riserve nel 1904, il quale si guadagnò la medaglia d'oro al valor militare (cosa piuttosto rara per un vivente) per un'eroica azione: Giuseppe Castruccio nella notte del 22 settembre 1917 era riuscito da solo - sospeso nel vuoto - a portare in salvo un dirigibile italiano gravemente danneggiato dall'antiaerea austriaca e il suo equipaggio.




TORNA IL CALCIO GIOCATO

Torna la normalità e con essa il calcio giocato. La Federazione dichiara la vittoria del Genoa nel torneo 1914-15. Ritorna anche Garbutt. Nuovi protagonisti si affiancano ai vecchi eroi. L'esordio di Ottavio Barbieri. Un incredibile arbitraggio di Varisco con la Juventus spiana la strada all'Internazionale.

Il 1919 fu l'anno del ritorno al calcio giocato. Ma soprattutto, la Federazione decise finalmente (23 settembre) di assegnare il titolo del campionato 1914-15, nominando il Genoa vincitore per la settima volta. La Società rossoblù richiamò i veterani dell'ultimo torneo prebellico e soprattutto fece rientrare dall'Inghilterra Mister Garbutt che non seppe resistere alle sirene di Davidson anche perché il suo stipendio venne aumentato a 8000 lire annue. Ma ai vecchi protagonisti di anteguerra, furono affiancati nuovi protagonisti: arrivarono i fratelli Bergamino, l'ex terzino savonese Ghigliano, il centravanti Brezzi, quasi tutti futuri nazionali. Ma l'elemento migliore il Genoa lo scoprì in casa in occasione di un'amichevole giocata a Marassi il giorno di Pasqua contro una
squadra formata da professionisti britannici ancora sotto le armi. Mancando un laterale destro, Garbutt convocò d'urgenza un giovane che si era distinto in quello stesso ruolo nella partita appena terminata nella squadra dei ragazzi: era il diciannovenne Ottavio Barbieri il quale, dopo aver indossata una maglia pulita, rientrò in campo con i titolari risultando anche con questi uno dei migliori. Da quel giorno, e per oltre un decennio, Barbieri fu praticamente inamovibile in quel ruolo. Il primo campionato del dopoguerra vide il Genoa compiere una passeggiata nel Girone Ligure e nel girone di semifinale nel quale si piazzò al primo posto, lasciandosi alle spalle la Pro Vercelli e il Milan. In forza di tali risultati, il Genoa era dunque considerato il favorito tra le tre finaliste dei gironi settentrionali. Ma sul neutro di Milano l'arbitro Varisco, si eresse a protagonista assegnando un inesistente rigore alla Juventus che riuscì così a pareggiare la rete iniziale di Santamaria. Poi convalidò un goal bianconero realizzato in palese fuorigioco e, per non farsi mancare nulla, espulse Della Casa e De Vecchi, per proteste. Per capire l'enormità della cosa, basterebbe ricordare che De Vecchi, plurinazionale, era proverbiale per la sua correttezza tanto che quella sarebbe stata l'unica macchia nella sua carriera. Di fronte a tanta spregiudicatezza, anche Traverso rientrò di sua volontà anzitempo negli spogliatoi. Contro un Genoa ridotto in otto la Juve triplicò facilmente, ma i grifoni riuscirono tuttavia a raccorciare le distanze con Sardi. Il successivo incontro con l'Inter (disputato a Modena e con un Genoa privo degli squalificati Traverso e Della Casa e dell'indisponibile Santamaria) si risolse in un pareggio che spianò così ai nerazzurri (che avevano già battuto la Juventus per 1 a 0) la finale (risultata poi vittoriosa) di Bologna con il Livorno vincitore del Girone Centro-Meridionale.



DA DAVIDSON A SANGUINETI

Avvicendamento ai vertici societari: se ne va Davidson, subentra Sanguineti. La scissione del 1921. L'incredibile harakiri con la Pro Vercelli. Il ritorno di Santamaria fa da prologo al trionfo del 1922-23. Il viaggio in Sudamerica consacra la grandezza del Genoa, che pareggia con la Nazionale argentina, aiutata da un incredibile prologo.

L'estate del 1920 iniziò con un avvicendamento al vertice della Società: lo scozzese Davidson lasciò la presidenza al genovesissimo Guido Sanguineti, senza peraltro abbandonare completamente il timone della nave rossoblù (Davidson ricoprirà la carica di vicepresidente fino al 1923 e rimarrà nel consiglio fino al 1927). Anche la squadra fu attraversata da venti di cambiamento, tanto che, per divergenze economiche, se ne andarono alcuni uomini chiave tra cui il fortissimo Santamaria - il vero regista della squadra che decise di passare alla Novese. Il Genoa risentì di queste defezioni tanto che gli incontri d'andata del Girone Ligure furono disastrosi: riuscì a vincere solo con lo Spezia e con la Rivarolese per squalifica a tavolino. Ma si risollevò nel ritorno con il ritorno di Wallsingham all'ala destra e di De Vecchi in cabina di regia, agguantando la qualificazione per le semifinali senza tuttavia andare più in là. La dirigenza rossoblù, comprese la lezione di quel campionato anonimo e, nell'estate del 1921, Sanguineti acquistò un buon numero di giovani provenienti da quelle squadre minori genovesi che nel torneo precedente avevano messo in difficoltà il Grifone. Dalla Spes arrivarono il forte portiere De Prà, il jolly Moruzzi ed il difensore Morchio; dall'Andrea Doria il centromediano Luigi Burlando. Infine dalla Serenitas era arrivato anche un ottimo centravanti - Edoardo Catto - che si sarebbe poi rivelato il miglior realizzatore di tutti i tempi nella storia del Grifone. La stagione 1921-22 si aprì con una novità eclatante: la Federazione - a causa di divergenze sulla gestione del Campionato - si divideva. Mentre alcune società ritenevano che, per il bene del calcio italiano si dovesse puntare sulla sua piena diffusione in tutto lo stivale, passando sopra a criteri qualitativi, altre società, tra cui il Genoa ritennero di non potersi piegare a questa impostazione. Furono così organizzati due tornei. Il Campionato della Confederazione Calcistica Italiana (cui facevano parte il Genoa e le altre squadre più forti) aveva abolito i gironi regionali (cosa che invece mantenne la Federazione Italiana Gioco Calcio) introducendo quattro gironi, due al Nord e due al Sud. Il Genoa trionfò nel suo, surclassando squadre blasonate come il Torino, il Casale e l'Internazionale. Dopo aver pareggiato a reti inviolate a Vercelli, il Genoa buttò via il lavoro di un anno, facendosi battere a domicilio, dopo essere passati in vantaggio grazie ad un autogoal del vercellese Bossola. La consapevolezza di avere la vittoria in pugno risultò fatale all'undici di Garbutt. Già raggiunti prima del riposo, De Vecchi e compagni non riuscirono più a riprendersi tanto che il centravanti Rampini siglò il secondo goal che portò definitivamente la Pro Vercelli alla vittoria e alla conquista (dopo la finale vittoriosa con la Fortitudo di Roma) del suo settimo e ultimo titolo. Il Genoa reagì a questa delusione riportando a casa il figliol prodigo Santamaria (il cui apporto era stato determinante alla Novese per la vittoria nella finalissima di Modena contro la Sampierdarenese nel parallelo campionato della F.G.C.I.) ed acquisendo il terzino Bellini e l'ala Neri. Ne derivò una miscela esplosiva che doveva portare il Genoa a trionfare nel torneo 1922-23, quello della riunificazione. A farne le spese fu prima di tutti il Milan (4-1 a Marassi e 3-1 a Milano), seguito dall Bologna (2-1 e 2-1). Fra le grandi solo la Juventus riuscì a resistere in casa propria (1-1) mentre a Genova anche la Vecchia Signora era uscita sconfitta (2-1). Entrato di gran carriera nelle finali del Girone Nord le vinse entrambi eliminando il Padova e (finalmente!) la Pro Vercelli. Non rimanevano che le due finalissime contro la vincitrice del Girone Centro-Sud, la Lazio. A Roma, prima della partita di ritorno, che avrebbe sancito la vittoria dell'ottavo campionato, la squadra e i dirigenti vennero ricevuti dal Papa e dal Capo del Governo Benito Mussolini il quale incitò i Genoani alla vittoria: "Siete i più forti, insegnate a questi Romani come si gioca! Domani dovete vincere!" Le parole del Duce furono confermate sul campo dai rossoblù, in una partita che fu insaporita anche da una sorta di passaggio di consegne tra due fuoriclasse, De Vecchi e Bernardini, che proprio in quel lasso di tempo cominciava la sua straordinaria carriera. La forza di quel Genoa, doveva trovare esplosiva conferma, proprio in quella estate del 1923 con una consacrazione internazionale. Le imprese di De Prà e soci avevano varcato l'Oceano e gli appassionati di football del Sud America richiesero a gran voce i Rossoblù. Il 28 luglio tredici titolari, quattro rinforzi azzurri di altrettante squadre (Girani, Romano, Moscardini e Baloncieri), l'allenatore Garbutt e il dirigente Ghiorzi si imbarcarono sulla motonave "Principessa Mafalda" per la grande avventura sudamericana. Anche in Argentina il Genoa si fece onore. Sconfitto (la stanchezza del viaggio si fece sentire) nella prima partita contro una rappresentativa della Lega Nord (1-2), vittorioso contro una della Lega Sud (1-0), il Grifone pareggiò l'incontro con la Nazionale Argentina allo stadio Barracas davanti a 50.000 spettatori in delirio. C'era però un piccolo particolare ad ingigantire l'impresa del Genoa: il goal che aveva portato in vantaggio i Sudamericani (poi pareggiato da un colpo di testa di Santamaria) fu segnato su passaggio del Sindaco di Buenos Aires, che aveva voluto dare il simbolico calcio d'inizio senza peraltro allontanarsi dal campo. I rossoblù, in attesa del vero e proprio via all'incontro, assistettero impassibili alla marcatura poi incredibilmente convalidata dall'arbitro di casa. Si recarono quindi in Uruguay dove furono sconfitti dalla Nazionale uruguagia (1-3) che circa dieci mesi dopo si sarebbe aggiudicata il titolo olimpico.

Storia del Genoa 2

TRANSIZIONE

L'Andrea Doria riesce a sovvertire le gerarchie cittadine. L'addio a Ponte Carrega. La federazione decide per un campionato senza stranieri e provoca la ribellione della maggior parte delle squadre, che danno luogo ad un altro torneo. Comincia la grande rivalità con la Pro Vercelli. Il Genoa cambia ancora casa e va a giocare a Marassi.

Il 1907 vide la riorganizzazione del campionato da parte della Federazione, che decise di far effettuare 6 partite tra le squadre di Genova, Torino e Milano. Per la prima volta nella sua storia il Genoa fu eliminato in campionato dalla concittadina Andrea Doria: il pareggio (1 a 1) del primo incontro rese necessaria la ripetizione della partita che si concluse con la clamorosa vittoria dei biancoblù doriani capitanati dal fuoriuscito Calì per tre goal a uno. Pochi giorni dopo le due squadre si incontrarono di nuovo in amichevole e il Genoa, travolgendo gli avversari per 10-1, dimostrò che si era trattato di un semplice incidente di percorso. Quello stesso anno la Società si trovò a far fronte alla necessità di reperire un nuovo campo di gioco perché l'ex Velodromo di Ponte Carrega era stato destinato alla costruzione di un enorme gasometro. Il problema fu risolto grazie all'interessamento del dirigente-giocatore Vieri A. Goetzlof, un commerciante di carbone valdese, naturalizzato genovese, che riuscì a concludere, accollandosi personalmente l'onere finanziario, per un'area nella zona di San Gottardo, sempre nella vallata del Bisagno ma più a nord rispetto a Ponte Carrega. Sul nuovo campo, inaugurato l'8 dicembre 1907 con una amichevole contro l'equipaggio del vapore inglese Canopic, il Genoa avrebbe giocato per tre anni. Nel frattempo la Federazione, su pressione di alcune società nelle cui fila militavano esclusivamente atleti italiani, dette luogo ad una decisione molto discutibile, decidendo di proibire il Campionato ai calciatori stranieri. Il diktat federale, vide la decisa opposizione di Genoa, Milan e Torino. Iniziò così nel 1908 il primo campionato "autarchico" da cui si dissociò dopo un paio di giornate anche la Juventus, e che vide la vittoria della Pro Vercelli, che andava ad inaugurare il suo periodo aureo nel corso del quale si sarebbe accaparrata ben 5 campionati in sei anni. A settembre dalla Svizzera arrivarono tre nuovi acquisti: Hug, Herzog e Hermann, un jolly, un mediano e una mezzala che andavano ad aggiungersi al loro compatriota, il centravanti Hurni. La squadra fu completata da altri elementi di valore quali il centromediano Luigi Ferraris (al cui nome 25 anni più tardi verrà intitolato lo stadio) e l'ala Marassi (detto "catapulta") entrambi provenienti dalle giovanili di Spensley. Il nuovo campionato (1909) rivide in campo le squadre blasonate grazie alla revoca dell'assurdo regolamento sui giocatori stranieri. E proprio da quell'anno, iniziò la forte rivalità con la Pro Vercelli, dovuta all'occhio di riguardo con cui la Federazione seguiva le vicende della compagine piemontese, formata esclusivamente da giocatori italiani. Nella città piemontese il Genoa finì la partita in dieci uomini in quanto Hug uscì dal campo con una gamba fratturata dopo uno scontro al limite del codice penale con un terzino vercellese. Nel ritorno di Genova, grazie anche al discutibile arbitraggio di Meazza, i rossoblù non andarono oltre il pareggio. Ben presto anche il campo di San Gottardo cominciò a presentare degli inconvenienti dovuti soprattutto all'incremento del pubblico, effetto del crescente favore incontrato sin da allora dal calcio, nonostante la lontananza eccessiva dal centro della città e causata dalla limitatezza della capienza delle tribune. Per ovviare a questi inconvenienti, Musso Piantelli propose al presidente Pasteur l'utilizzo del terreno all'interno del galoppatoio adiacente alla cinquecentesca villa di sua proprietà nel quartiere di Marassi. Pasteur accettò anche l'unica condizione posta da Piantelli e cioè che fosse mantenuta la pista ad anello per l'equitazione e che la Società si fosse fatta carico delle spese per la manutenzione del maneggio. Così il 10 luglio 1910 il Genoa entrò in possesso del nuovo terreno di gioco. Nel frattempo, la mancanza di vittorie in campionato, fu coperta da quella di altri trofei. Il più prestigioso fu quello messo in palio dall'ex presidente Goetzlof: la coppa che porta il suo nome sarebbe stata assegnata alla squadra capace di ottenere consecutivamente quattro risultati positivi (vittorie o pareggi) con altrettante sfidanti. La conquistò il Genoa battendo l'Inter fresco di titolo con un clamoroso 10 a 2, il Milan, l'Andrea Doria per forfait e pareggiando con il Torino. Il 22 gennaio 1911 fu inaugurato il nuovo stadio di Marassi. , dotato di due tribune riparate dal sole e dalla pioggia per una capienza totale (compresi i parterre tutt'intorno al prato) di circa 25.000 spettatori. Uno stadio che ricordava molto da vicino gli impianti inglesi e che fu subito considerato il migliore d'Italia. A ottobre ricominciò il campionato e il Genoa si presentò con rinnovate mire: dall'Inghilterra erano arrivati Miller, Stocker e Marsch, dalla Svizzera il portiere Surdez e l'attaccante Comte che vanno ad aggiungersi all'ala Mariani (ex Milan) e all'inglese Murphy arrivati la stagione precedente. L'inizio del nuovo torneo fu esaltante per il Genoa: 13 punti su sette partite, tra le quali spiccarono una sonora cinquina (a uno) rifilata alla Juventus e la vittoria (1-0) sul Milan che si sarebbe poi aggiudicato quel campionato. Ma ancora una volta lo scoglio fu rappresentato dalla Pro Vercelli che, con un goal per tempo, interruppe sul proprio campo la cavalcata vittoriosa dei rossoblù.



ARRIVA GARBUTT

Il Genoa adotta il modello inglese. Arriva dall'Inghilterra un certo Thomas Garbutt, il primo allenatore professionista della storia del calcio italiano. L'importanza della preparazione tecnica assume la giusta rilevanza, ma non solo. Il lato psicologico è la vera forza di Garbutt. Arrivano i rinforzi da Oltremanica.

Nel 1912, il Genoa, che aveva ormai preso a modello le società professionistiche inglesi imitandone molti aspetti, decise di introdurre una figura sino ad allora mai presa in considerazione nel nostro paese, quella dell'allenatore. Il primo a ricoprire tale carica fu un certo William Thomas Garbutt, che era stato ottimo giocatore nelle file del Reading e dell'Arsenal, nelle cui file aveva collezionato oltre 130 presenze nella massima serie. L'arrivo di Garbutt, fu dovuto all'intuito del presidente Aicardi, il quale decise di dare seguito ad una segnalazione che gli era arrivata da oltre Manica, ove Garbutt si stava facendo le ossa come trainer dopo aver abbandonato il calcio giocato e di portarlo all'ombra della Lanterna. Era un passo decisivo nell'evoluzione del calcio italiano. Con lui infatti, arrivò una vera e propria rivoluzione nelle tecniche di allenamento, che sino ad allora erano state più che altro delegate all'intuito e che invece da quel momento assumevano un ruolo di rilievo nella preparazione della squadra. L'aspetto artigianale, stava per lasciare il passo a tecniche più avanzate, che prefiguravano la fine dell'era romantica del calcio. Ma quello che distingueva Garbutt, permettendogli di ricavare il massimo dal materiale umano che gli veniva messo a disposizione, era l'aspetto psicologico. Anche nei rapporti umani era insuperabile, riuscendo a creare uno spirito di corpo fra tutti i giocatori con i quali instaurava un rapporto amichevole senza perdere per questo il suo grande carisma e la sua autorità. Dall'Inghilterra Garbutt si portò in Italia anche i rinforzi della squadra: l'ala destra Eastwood, il centravanti Grant e la piccola ala Wallsingham, oltre al centrosostegno Mitchell e a MacPherson. Buona parte dei giocatori stranieri, erano professionisti nella loro patria e gli stipendi che il Genoa pagava loro venivano camuffati sotto le voci più strane come "rimborso spese", "malattia", "viaggio in cerca d'impiego" oppure erano messi a libro paga in qualcuna delle aziende di proprietà dei dirigenti rossoblù. Una piccola ipocrisia che stava ormai per essere spazzata via dall'evoluzione del calcio.



RITORNO ALLA VITTORIA

Nel 1912 il campionato diventa veramente nazionale, allargandosi al centrosud. La spunta ancora la Pro Vercelli. Geo Davidson diventa presidente e non bada a spese: arriva il grande De Vecchi. Il conflitto con la Federazione porta il Genoa sull'orlo della radiazione. La finale persa col Casale fa da preludio al ritorno alla vittoria del 1914.

Una evoluzione ormai inarrestabile, che aveva fatto breccia anche al centrosud, ove si erano formate tante squadre forse in ritardo verso le consorelle settentrionali, ma piene di sano entusiasmo per il nuovo gioco proveniente dall'Inghilterra. La Federazione, proprio in quel 1912, prese atto della nuova realtà e decise di dar luogo ad un torneo nazionale con trenta squadre, articolato su gironi territoriali che avrebbero dovuto esprimere due finaliste, una per il Nord e l'altra per il centromeridione. Il Genoa, arrivò secondo in quello ligure-lombardo e poi in quello finale, alle spalle della solita Pro Vercelli. Ma il Genoa non demordeva e continuava - tassello dopo tassello - a costruire una squadra sempre più forte. Geo Davidson, un imprenditore scozzese trapiantato a Genova e uno dei soci fondatori del vecchio Athletic Club, nell'estate del 1913 decise di assumere la presidenza del Genoa. Davidson aveva grandi ambizioni e di conseguenza non perse tempo e ancor prima di essere ufficialmente investito dell'onorifica (e onerosa) carica (cosa che avvenne il 9 ottobre successivo) si diede immediatamente da fare per trovare i rinforzi adeguati. E senza badare a spese. Da tempo aveva adocchiato un giovanissimo terzino che tre anni prima, appena sedicenne, aveva esordito in Nazionale e che nel campionato appena terminato aveva fatto vedere tutta la straordinaria classe di cui godeva. Il suo nome era Renzo De Vecchi e proprio in quei giorni si trovava in disaccordo con la dirigenza della sua squadra, il Milan, per motivi di carattere finanziario. Davidson riuscì ad inserirsi nella diatriba e convinse De Vecchi a trasferirsi a Genova. Ma altri giocatori erano nel mirino dell'intraprendente scozzese, che può essere considerato a buon diritto il primo presidente mecenate della storia del calcio italiano e sicuramente il principale artefice di un altro primato andato ad arricchire il carniere del Grifone. Il Genoa - secondo la Federazione di quei tempi - era accusato di aver scatenato qualche cosa di paragonabile alla cosiddetta sentenza Bosman dei nostri giorni: il professionismo nell'allora (ufficialmente) dilettantesco mondo del calcio. Se era passato inosservato, almeno sotto l'aspetto economico, il trasferimento di De Vecchi al Genoa, il passaggio nelle fila rossoblù di Attilio Fresia dall'Andrea Doria per 400 lire e quello ancora più grave dei doriani Sardi e Santamaria per 1600 lire a testa portarono ad un vero e proprio conflitto con la Federazione. La radiazione della società, proposta dai puristi cui non andava giù l'introduzione del professionismo insieme all'espulsione dei suoi dirigenti, la sospensione a vita dei giocatori, fu evitata grazie alla grande abilità oratoria di Edoardo Pasteur che, in un processo intentato contro il Genoa, riuscì a convincere i giudici della buona fede dei dirigenti rossoblù. Il campionato 1913-14 fu - nonostante le premesse - un ulteriore passo di avvicinamento all'agognata meta della vittoria finale che mancava ormai da dieci anni. Il Genoa si qualificò al girone finale eliminando finalmente la Pro Vercelli, sconfitta a domicilio (per la prima volta in campionato) per uno a zero. Tuttavia la vittoria finale arrise a un'altra società piemontese, quel Casale che proprio in quel lasso di tempo era riuscito a costruire uno squadrone e che superò a Genova il Grifone nella partita d'esordio del girone finale in uno spasmodico incontro che vide i nerostellati segnare a pochi minuti dalla fine il contestatissimo goal del 2 a 1 dopo che Grant aveva riagguantato il pareggio. Il 4 ottobre 1914 iniziò il nuovo campionato e il Genoa, ancora una volta in rotta con la Federazione e condannato a pagare una multa e a subire la squalifica del campo per aver "acquistato" Berardo e Mattea dal Casale, si trasformò in una vera e propria macchina da goal. Se ne accorsero squadroni come la Juventus (4-0 e 5-2), l'Internazionale (5-3 e 3-1) e il Milan (3-0) a Milano. Quando però mancava una giornata al termine, con una classifica che vedeva il Genoa primo a due punti dal Torino, successe ciò che tutti ormai si aspettavano. Giunse infatti un dispaccio dalla Federazione: il campionato era sospeso in quanto era prevista per il giorno dopo - il 24 maggio - la mobilitazione generale: l'Italia entrava in guerra contro l'Austria.

Storia del Genoa 1

NASCE IL GRIFONE

Via Palestro 10: nasce il Genoa Cricket and Athletic Club. L'impulso degli inglesi alla diffusione del football in Liguria e nel resto della Penisola. Tra i fondatori spicca la figura di Charles Alfred Payton, futuro Baronetto dell'Impero di Sua Maestà. Il football, gioco delle classi popolari, trova alloggio al campo del Campasso.

La sera di giovedì 7 settembre 1893, il portone del civico numero 10 di via Palestro, nel nuovo cuore della città di Genova, vide sfilare uno dietro l'altro un gruppo di signori che di lì a poco avrebbero scritto un pezzo importantissimo della storia calcistica del nostro paese.
Già l'aspetto tradiva la loro provenienza, del resto confermata dai cognomi che sarebbero andati a corredare l'atto di nascita del primo club calcistico italiano: Charles De Grave Sells, S.Green, G.Blake, W.Riley, D.G.Fawcus, Sandys, E.De Thierry, Jonathan Summerhill Senior e Junior, e soprattutto Charles Alfred Payton. Questi, futuro baronetto dell'Impero Britannico, era il Console generale di S.M. la Regina Vittoria a Genova. E l'appartamento (all'interno 4) che accolse l'allegra compagnia d'Albione era proprio la sede del Consolato inglese nella Superba. La cerimonia che stava per andare in scena era l'ufficializzazione di quel circolo sportivo che già da oltre un anno svolgeva una attività senza sosta, della quale erano protagonisti proprio i residenti britannici nel capoluogo ligure: il Genoa Cricket and Athletic Club.
La comunità inglese di Genova, come del resto quella svizzera e quella tedesca, era allora molto numerosa in conseguenza dello straordinario sviluppo che avevano avuto i traffici portuali del capoluogo ligure dopo l'apertura del Canale di Suez. Per fare in modo da dare una continuità alla passione sportiva che animava quella comunità, si dovette dunque cercare un campo di gioco ove effettuare le esercitazioni atletiche e le partite di cricket. Il gioco del calcio, almeno in quel primo momento, arrivava buon ultimo anche perchè, tale sport era considerato in Inghilterra un gioco proletario e i soci del circolo appartenevano tutti alla Upper Class. A praticarlo erano soprattutto i soci più giovani del Club che contava, oltre ai quadri dirigenziali, altri trenta soci effettivi. Il terreno di gioco fu messo a disposizione da Wilson e McLaren, due industriali scozzesi che possedevano una fabbrica situata nell'attuale delegazione di Sampierdarena, nella Piazza d'Armi del Campasso (nelle adiacenze dell'attuale via Walter Fillak). Le partite venivano giocate al sabato e la sede operativa era la locale trattoria Gina, ove i praticanti usavano rifugiarsi dopo le partite.



ARRIVA SPENSLEY

Un uomo fuori dal comune, James Richardson Spensley, diventa la chiave per la diffusione del football in Italia. Il 10 aprile 1897, una data storica: l'assemblea del Genoa accoglie una mozione per l'accoglimento di soci italiani nel club. Sampierdarena si rivela insufficiente ai bisogni di una società in grande espansione, si passa a Ponte Carrega.

Erano passati tre anni dalla fondazione quando a Genova arrivò colui che può essere considerato la figura chiave per la diffusione del calcio in Italia. Era un medico trasferito dall'Inghilterra a Genova per curare i marinai inglesi delle navi carboniere. Persona molto colta, appassionato di religioni orientali, conosceva perfettamente tra le altre lingue il sanscrito ed il greco, viaggiatore instancabile, corrispondente per il Daily Mail, appassionato di pugilato, filantropo (nel 1910 avrebbe fondato la sezione italiana dei boy-scout) e svariate altre cose: questo uomo era James Richardson Spensley. Ma Spensley era soprattutto un grande appassionato di football, sport che lo aveva attratto immediatamente e che praticava regolarmente. La sua passione si spinse sino ad allestire una vera e propria squadra di calcio sul modello di quelle britanniche che ormai da anni si stavano dotando di una organizzazione capace di superare la fase embrionale e di promuovere una diffusione capillare del nuovo gioco che sin dagli esordi aveva dimostrato una straordinaria capacità di attrazione su giovani di tutte le classi e ceti sociali. Proprio Spensley, al fine di promuovere la diffusione dello sport che amava, si occupava di arruolare per le partite del sabato gli equipaggi delle navi inglesi alla fonda nel porto nonchè gli operai, sempre di nazionalità anglosassone, delle ferriere Bruzzo, che del resto non chiedevano di meglio per poter trascorrere le ore successive a quelle lavorative.
Una data storica, nella storia piena di fascino che stiamo narrando, fu quella del 10 aprile 1897: quel giorno, lo stesso Spensley riuscì a far passare nell'Assemblea del Genoa una mozione rivoluzionaria che sanciva l'ingresso nel Club di soci italiani (fino a 50 all'inizio, senza limite dopo alcuni anni) e portava perciò ad un ulteriore allargamento delle basi su cui si poteva lavorare per la diffusione del football.
Il primo storico campo da gioco fu quello di Sampierdarena, che però ben presto si rivelò insufficiente alle esigenze della squadra. Fu ancora una volta Spensley ad intervenire trovandone uno nuovo in un'altra zona della città, a Ponte Carrega, lungo le rive del torrente Bisagno, all'interno dello spazio utilizzato dalla Società Ginnastica Colombo come pista velocipedistica…



PRIME VITTORIE

Nel 1898 si forma la Federazione Italiana Gioco Calcio. Il calcio italiano sta per entrare nella fase che porterà alla disputa del primo torneo della sua storia. L'8 maggio 1898, il Genoa vince il primo scudetto assegnato in Italia. Anche il secondo e il terzo titolo finiscono a Genova. Il Milan spezza il monopolio, che però riprende negli anni successivi.

Quando nel 1898, a Torino, si formò la Federazione Italiana Gioco Calcio, ente preposto a governare una attività che si andava facendo sempre più vivace, il calcio italiano entrò nella fase che avrebbe portato alla disputa del primo torneo nella storia del nostro sport più popolare. Nella seconda seduta della Federazione, tenuta il 26 marzo dello stesso anno, fu decisa la disputa del del primo campionato italiano. La data fissata, perchè il torneo sarebbe stato disputato in un solo giorno, fu l'8 maggio, nell'ambito dei festeggiamenti in occasione dell'Esposizione Internazionale per i cinquant'anni dello Statuto Albertino, con teatro il Velodromo Umberto I di Torino, nei pressi dell'ospedale Mauriziano. Nell'eliminatoria della mattina il successo arrise ai bianconeri dell'International che avevano superato per 1 a 0 il Football Club Torinese del marchese Ferrero di Ventimiglia. E il Genoa (in camicia bianca) batté per 2 a 1 la sezione calcio della Società Ginnastica del Cavalier Bertoni. Al pomeriggio la finale venne disputata davanti a oltre un centinaio di spettatori per un incasso di 197 lire. Dopo i tempi regolamentari Genoa ed International di Torino erano ancora sull'uno a uno. Nei supplementari il "golden goal" fu messo a segno dall'ala sinistra genoana Leaver, permettendo ai Grifoni di aggiudicarsi il primo campionato italiano di calcio. La Società si portò a casa una coppa generosamente offerta dal Duca degli Abruzzi, mentre a ciascun giocatore andò una medaglia d'oro stile rococò. Iniziò così il primo ciclo della prima grande squadra di football italiana. Nella stagione seguente fu infatti ancora il Genoa (che aveva adottato le nuove camicie a strisce verticali biancoblù) ad aggiudicarsi il titolo: battuto il FBC Liguria il 26 marzo 1899 nelle eliminatorie liguri, superò per 3 a 1 nella finale di Ponte Carrega del 16 aprile la vincente delle solite tre società torinesi in lizza: l'International FBC. Anche nel 1900, il risultato non cambiò, con l'ennesimo trionfo del Genoa. Le eliminatorie regionali videro vincitrici il FBC Torinese (sulla Società Ginnastica e - per la prima volta - sulla Juventus) per il Piemonte; il Milan (sulla Mediolanum) per la Lombardia; il Genoa (7 a 0 contro la Sampierdarenese) per la Liguria. Nell'eliminatoria interregionale il FBC Torinese ebbe ragione del Milan potendo così sfidare il Genoa nella finale di Torino del 22 aprile 1900, che terminò 3-1 per la Società genovese. Il 1901, vide invece il Milan di Herbert Kilpin spezzare il monopolio del Genoa, andando a vincere il 5 maggio a Ponte Carrega. Il 1901 va ricordato anche per un fatto importante, il mutamento nei colori sociali che diventarono granata e blù scuro disposti a quarti sulla camicia: era il primo passo verso la tonalità definitiva che sarà fissata nel 1904 con l'irrevocabile scelta del rossoblù. Nel 1902 il Genoa riprese il suo cammino vittorioso, su un lotto di pretendenti più corposo. Il FBC Torinese ebbe la meglio nel girone eliminatorio piemontese, un vero e proprio mini torneo a quattro squadre, dopo lo spareggio con la Juventus, mentre nella eliminatoria ligure-lombarda il Genoa Club ebbe vita più facile anche se dovette incontrare per la prima volta in campionato l'Andrea Doria, Società Ginnastica genovese la cui sezione del football era stata rafforzata da alcuni fuoriusciti genoani, tra i quali quel Franco Calì, che sarebbe stato il primo capitano della Nazionale. Dopo il derby vittorioso per 3 a 1 i genoani eliminano anche la Mediolanum. La combattuta semifinale a Torino contro il FBC Torinese (superato per 4 a 3 dopo i supplementari) spalancò le porte della finale agli uomini di Spensley che, il 13 aprile, superando per 2 a 0 il Milan a Ponte Carrega, si riappropriarono del titolo che cederanno solo nel 1905 alla Juventus (finalista anche nei due anni precedenti). Proprio le tre vittorie consecutive, permisero al Genoa di aggiudicarsi la coppa Fawcus messa in palio nel 1902 dal suo presidente e destinata alla squadra capace di simile impresa. Nell'ottobre del 1902 per la prima volta in Italia fu fondato dai rossoblù il "vivaio" per ragazzi di età inferiore a sedici anni, che si distinsero immediatamente andando a vincere il primo campionato riserve. Veniva così definito in realtà il torneo disputato dalle squadre giovanili delle varie società. Quella del Genoa, allenata dall'infaticabile dottor Spensley, era composta da validi elementi molti dei quali avrebbero sostituito i "fondatori" al termine della loro carriera. Nel 1903 il Genoa fu la prima compagine italiana ad incontrare una società straniera all'estero, il Football VeloClub Nizza che il 27 aprile fu battuto per 3 a 0 nel suo stadio (anche la partita d'andata a Ponte Carrega aveva visto soccombere la squadra francese per 6-0). Sempre in quell'anno (a dicembre) il socio-giocatore Henry Dapples mette in palio una coppa particolare: è la cosiddetta Palla Dapples, una sfera d'argento delle stesse dimensioni e delle stesse caratteristiche (con cuciture in rilievo) di un pallone da football. La Palla Dapples, che prevedeva degli scontri diretti al termine dei quali ogni volta il vincitore si portava a casa il trofeo per poi cederlo alla squadra sfidante che lo avesse battuto, andò avanti per ben sei anni e attraverso 47 incontri. Il 20 dicembre 1909 se lo aggiudicò definitivamente il Genoa dopo che la Palla Dapples aveva decorato le sedi di Milan, Juventus, Torino, Pro Vercelli, Andrea Doria, Unione Sportiva Milanese. Nel 1906 mentre volgeva ormai al crepuscolo la stagione dei cosiddetti "fondatori", il Genoa non riuscì ad arrivare in finale riuscendo però ad inanellare due primati. Il 18 marzo la partita con la Juventus (a Torino) fu sospesa a causa della prima invasione di campo della storia del calcio italiano, dopo tre rigori sbagliati dai rossoblù. La partita fu ripetuta il 1 aprile - a Milano in campo neutro - e da Torino e da Genova furono organizzati i primi due treni speciali di tifosi.

giovedì 20 novembre 2008

Il Milito ignoto

Maradona lo guarda, Genova lo adora, il Real lo vuole e lui dà lezioni pure a Ronaldinho. Come un Principe

Si capisce perché lo chiamano Principe: prendi una foto di Enzo Francescoli e mettila accanto a quella di Diego Milito. Trova le differenze. Il viso, i lineamenti, il portamento. Certi soprannomi si ereditano per analogia, poi diventano propri. Dov’è finito Enzo? Ora c’è Diego. Solo Diego. La testa alta, il destro, il sinistro, lo stop. Centravanti elegante come un fantasista. Francescoli non serve, se non a ricordare. Milito basta e avanza perché quelli come lui sono la certezza dei gol e anche di un certo modo di fissarsi con i personaggi. Facile adesso. Dieci gol, il primo posto nella classifica cannonieri, la tripletta alla Reggina, il rigore alla Juventus, Maradona che dice “lo sto guardando”. Milito è come se fosse nato adesso. Ventinove anni sono il massimo e raccontano di un passato che non fa chic come il presente, ma è bello lo stesso. Diego fa gol, li ha sempre fatti. Ora si vedono di più, in diretta satellitare o digitale: portano Genova lassù, sentono il boato di Marassi, vedono la bandiera del Grifo che si muove sulla gradinata. Milito sorride e ogni tanto si tiene le orecchie per captare meglio il segnale, per registrare la messa in onda del godimento genoano. Mi-li-to. Il nome scandito dalla Nord è il segnale di un amore che non finisce. Prima, durante, dopo. C’è il 22 in campo, si va. Mancava in estate, perché Borriello l’aveva lasciato vuoto con il pacco di gol incluso. Diego l’ha ripreso, perché era stato suo la prima volta e anche dopo in Spagna. E’ il nuovo numero magico: parte da Kakà e arriva a Milito. Vuol dire gol, adesso. Uno, due, tre, fino a dieci. Poi tra qualche mese chissà: questo non sembra voler smettere anche se fa tanto il signore, il distaccato, il sostenuto. Immagini da nobile. Principe. Perché la movenza è quella lì, fatta di grazia, garbo, sinuosità. Diego non strappa mai un colpo, trasforma in stilosa anche una spaccata come quella contro la Reggina: la palla arpionata, spostata da un piede all’altro, colpita cadendo. Gol, ancora. Gol, sempre.

Dicono questo sia il miglior Genoa del dopoguerra, meglio di quello di Bagnoli, di Signorini, Aguilera, Skuhravy. Vero? Falso? Boh. Tanto quello è passato e questo esiste adesso: lo prendi e te lo tieni, perché fa niente se è meglio o peggio, l’importante è che ci sia, che giochi, che diverta. La maglietta, il campo, le porte, gli spalti. Arrivi al Ferraris ti siedi e vai. Diego è la sintesi, è il simbolo. Borriello era un’eredità complicata per la quantità e non per la qualità, perché qui lo sapevano come giocava Milito. L’avevano visto in B, l’avrebbero visto pure in C, perché dice che sarebbe rimasto quell’anno assurdo della promozione diventata doppia retrocessione. L’anno della presunta valigetta con i contanti scambiati prima di un Genoa-Venezia: Diego aveva portato la squadra in A e la giustizia l’aveva mandata in C per illecito sportivo e tante altre cose. Non aveva senso tenerlo per umiliarlo in terza serie. Adesso il senso c’è tutto: Milito ritorna, si prende la squadra che l’ha scoperto, la trascina, la spinge. Zona Uefa. Troppo? Gasperini non sa, non dice, poi si lancia: “Perché no?”. Appunto, perché? Sta zitto anche Milito, non per scaramanzia, né per mancanza di fiducia. Qui c’è il carattere, un modo di essere che ha fatto dire a qualcuno che “abbia già segnato in tre anni al Genoa più gol di quante parole spenda in una giornata, che non arrivano a 45”. I gol sono 43 in campionato, una manciata in coppa Italia. Tanti, una media più alta di chiunque altro abbia mai messo la maglia del Genoa. Borriello faceva il figo l’anno scorso, Diego fa impazzire oggi. Diversi e uguali. Diversi come gioco, come vita, come futuro. Uguali nei numeri, solo che Milito piace di più perché non c’è comproprietà, non ci sono pendenze: è del Genoa e anche di un po’ di Genova. Il Real? Si dice, ovvio. Si dice di ogni calciatore che giochi in Europa e segni oltre la media. Milito adesso è il migliore al prezzo più competitivo. Non se ne andrà, comunque. Non quest’anno, né il prossimo, a meno che Preziosi non decida di mettersi contro mezza città.

Diego è Genoa, è la speranza di togliersi il peso della lotta per non retrocedere e giocarsela per qualche altra cosa. Anche per niente, ma per quel campionato sereno che ti porta allo stadio pensando “adesso mi vedo uno spettacolo”: niente tensioni, niente ansie, niente patemi. Oggi e solo oggi: la partita, lo show, i gol, il calcio in quanto calcio. Milito serve a questo. El Principe, la rivincita di una manica di stranieri che non sono Ronaldinho, però condiscono il pallone. Quant’è bello avere ogni anno una scoperta? E’ bello anche pensare che lo sia anche se non lo è. Milito ha fatto il giro del Sudamerica col Racing di Avellaneda e poi il giro d’Europa con il Saragozza. Genova non c’entra per un attimo, nel senso che lì sapevano già chi fosse e allora lo stupore ora è del resto d’Italia, convinta di aver svelato un nuovo fenomeno, certa di aver rivelato al mondo un giocatore inaspettato. Perché ne parlano tutti come se lo vedessero per la prima volta? Diego è uno da quadripletta al Real Madrid. Il primo di destro, dopo un controllo al volo nell’area piccola; il secondo, finta a rientrare e colpo d’esterno a superare Casillas; il terzo e il quarto di testa. Era la stagione 2005-2006, in semifinale di Coppa del Re. Ai quarti aveva giocato contro il Barcellona: vittoria del Saragozza, con doppietta di Milito. Sei gol che possono bastare a raccontare un personaggio e a definire una carriera. Puoi trovare anche il Real peggiore della storia, però se riesci a fargliene quattro in una partita sei comunque un campione. Invece l’Italia lo scopre adesso, come se tutto quello fatto finora non valga nulla, come se contino solo i dieci gol di quest’anno. Ovvio che contano, ma con gli altri, non senza. Contano perché sono la certificazione, il sigillo, il timbro dell’“eccomi, sono Diego Milito e faccio gol a chiunque”. Il che è vero come poche cose nel mondo del pallone. Di potenza, di rapina, di classe, di piede, di testa, su rigore, su punizione. Milito fa gol, punto. Dici: è il suo mestiere. Giusto, però qui allora comincia a contare anche il dettaglio. Cioè come. Perché questo unisce la fame del bomber alla classe di chi potrebbe anche fare soltanto l’assistman.

Principe, allora. Francescoli è il termine di paragone stilistico e fisico, ma non strettamente pallonaro. Diego lo metti tra quelli alla Van Nistelrooy: gli attaccanti moderni che difendono il pallone, che lo accarezzano, che non fanno differenza tra i piedi. Ruud è l’eterno erede di Van Basten. Diego di chi? Se glielo chiedono fa una smorfia e basta. Forse sorride. Non cerca paragoni, non ha idoli da usare come chiavi per entrare nell’asse ereditario di qualcuno. Maradona? Ogni argentino si ispira a lui. Diego no. Batistuta? Bé, se non ami el Pibe, allora sei fan di Gabriel che con Dieguito litigò al Mondiale ’94. Milito non ti dice né uno né l’altro. Non lo faceva prima e figurarsi adesso che Maradona è commissario tecnico della Nazionale. Alla Stampa, qualche giorno fa, ha parlato di Messi: “Deve vedere cosa è Lionel: piccolo ma con le cosce che sono il doppio delle mie, un torello. E poi il carattere: entra nello stadio del Chelsea come se fosse il cortile di casa sua”. La differenza del Principe: niente idoli del passato, ma Messi che è più giovane di lui, che è quasi già una generazione dopo. Perché Diego vede il futuro più che il passato e se deve scegliere di andare a ritroso allora non ti parla di qualche grande ex, ma di suo fratello Gabriel che oggi è al Barcellona ed è il ricordo più frequente dell’infanzia, della giovinezza, dell’adolescenza. Famiglia è pallone. Perché questa non è la rivincita del calciatore strappato a una periferia difficile: non ci sono polvere, scarpe rotte, magliette bucate, palloni di pezza. Questa è storia di una villetta borghese di Bernal, un sobborgo di Buenos Aires. La storia di una famiglia normale, di due ragazzi che hanno studiato e che avrebbero continuato a farlo, di due che senza il calcio avrebbero fatto comunque qualcosa. Non c’è riscatto. Non c’è rivalsa. Non c’è scalata sociale. Forse è per questo che non ci sono idoli veri: non ce ne era bisogno perché non c’erano storie da imitare per sentirsi qualcuno. Diego è cresciuto giocando con Gabriel, tenendolo dietro, alle spalle, perché lui, il minore, fa il difensore centrale. Perfetti, complementari e mai una volta compagni. Perché uno finì al Racing Club di Avellaneda e l’altro all’Independiente. Cioè stessa città, ma squadre diverse. Cioè derby. Cioè una volta anche un litigio tra i fratelli perché Gabriel marcava Diego ed era come se marcasse chiunque altro: i tacchetti sui polpacci, le ginocchia sulle cosce, i gomiti sulle spalle. Mai insieme in campo, attaccati nella vita, compreso quel giorno del 2002, quando a distanza di cinque minuti l’uno dall’altro ricevettero la chiamata della Polizia: “Hanno rapito suo padre, venga immediatamente”. Si ritrovarono al commissariato, c’era anche la madre. Nel cortile l’Astra bianca del padre Jorge: era stato avvicinato la mattina mentre andava al lavoro. A un semaforo, lui fermo e un gruppo di uomini davanti a lui. Armati. “Scendi”. Lo presero e lo portarono via, chiesero duecentomila dollari di riscatto. Diego e Gabriel insieme per pagare. Avevano 23 e 22 anni, nel 2002. Diciannove ore di sequestro, poi il pagamento e la liberazione: Jorge da allora vive più protetto, così come la moglie. I figli hanno contribuito a rendere più sicura la vita dei genitori, perché i soldi degli ingaggi permettono tutto questo e anche altro. Diego è arrivato in Europa neanche un anno dopo il rapimento di suo padre. Genova perché pare che Preziosi avesse avuto una segnalazione e chiese al suo capo degli osservatori per il Sudamerica di andare a vederlo. Cioè Renato Favero, l’ex terzino destro baffuto della Juve anni Ottanta: vide Diego, prese appunti, cerchiò il nome e tornò a riferire al presidente. Preso a gennaio per la serie B. Dodici gol in mezzo campionato, ventuno in quello successivo intero. Ventuno per arrivare alla serie A e teoricamente fare coppia con Ezequiel Lavezzi, perché Preziosi aveva chiesto a Favero di andare a prendere El Pocho e lui l’aveva preso. Poi la maledetta valigetta con i soldi eccetera. Allora la serie C: niente Lavezzi e alla fine anche niente Principe. Perché bisognava venderlo, ovvio. Saragozza. Scelta di Diego per andare nella Liga e per andare da Gabriel, il fratello arrivato in Aragona nel 2003.

Adesso dicono che Diego fosse andato via controvoglia. Fa parte del gioco scatenato attorno a lui nelle ultime settimane. Spuntano ristoratori che raccontano di sms frenetici ogni domenica: “Voleva sapere che cosa avesse fatto il Genoa”. Ci sta, perché Milito non sarebbe andato via da Genova se non fosse successo il caos della retrocessione per sentenza. Però è vero che lì, a Saragozza è stato alla grande. Forse è lì che è maturato davvero per arrivare a essere quello che è ora: completo e sereno. Leader. Gol a ripetizione, uno dopo l’altro, uno più bello dell’altro. Uno per tutti, quello all’Athletic Bilbao: scatto, stop, finta verso l’esterno, rientro all’interno, tiro e gol. Questo perché è semplice ed efficace, perché si specchia esattamente in quello che è Diego: l’essenzialità che si trasforma in straordinarietà. Quel gol racchiude l’idea e il risultato. Quel gol festeggiato con il pugnetto destro che fa avanti e indietro. Roba classica, senza bisogno di esultanze particolari, strane, curiose. Dice che lui è così, semplice. Esattamente come i suoi gesti. Poi agli altri fa dire che è riservato, schivo, poco personaggio. Ma come? Genoa ottavo con il capocannoniere momentaneo della serie A in squadra e lui non parla, non fa il fenomeno, non accetta l’ospitata nella grande trasmissione tv. “Meglio a casa”, ha scritto il Secolo XIX martedì. Cioè in un appartamento a Quarto dove vive con la moglie Sofia e il figlio Leandro. Il ritratto che ne esce è quello di un pantofolaio che apre la porta, si toglie le scarpe, resta in tuta e ciabatte, accende la televisione e guarda gli altri come lui, ma a volte peggio di lui che discettano di calcio in tv. Impacciato, secondo qualcuno. Timido, secondo altri. Tutti e due messi insieme, a leggere le cronache postume del suo arrivo a Genova: alla presentazione della squadra invitarono una ballerina di tango e lui, Diego, argentino di Bernal, non riuscì a completare neanche un passo davanti alle risate imbarazzate dei compagni. Antonio Cassano non è un chiacchierone, ma Genova sa molto più di lui che di Diego Milito. Ok, adesso Tonino s’è sfogato nell’autobiografia, però resta un riservato, uno difficile da beccare per la paparazzata facile facile al ristorante o in una discoteca. Fa la figura del grande viveur se lo paragoni a Diego. Di lui i giornali e la gente fatica a sapere persino le classiche risposte da prima intervista. Qual è il tuo cantante preferito? Che cosa ti piace dell’Italia? Non l’abbiamo saputo nel 2004, non lo sappiamo adesso. Meglio così. Perché lo rendono diverso dalla banalità, lo tirano fuori dal cliché. Anti-personaggio fino in fondo, o almeno fino a quando non sarà costretto dal club a mettersi in piazza. Allora verrà fuori tutto: la pasta, l’asado, la sua playlist dell’iPod, il cabernet oppure la Coca Cola. Genova aspetta, mica ha fretta. Quanto vale adesso? Dicono trenta milioni di euro. Abbastanza per fare pensare che durerà poco, perché non c’è solo il Real, ma ci sarebbe anche l’Inter. C’è sempre di tutto, certo. Quest’anno ci doveva essere il Tottenham: era il concorrente del Genoa per prenderlo. Diego voleva Genova, poi la crisi economica, il buco lasciato da Bear Stearns nelle casse della società di Londra, hanno agevolato. Guadagna tanto: due milioni e mezzo di euro. Nel Genoa non c’è nessuno che costa così. Nessuno si lamenta, nessuno parla. Quattro rigori, sei di destro, due di sinistro, due di testa. Il pugnetto che fa su e giù, a volte anche tutti e due. Si può spendere per uno così. I gol valgono assegni in bianco. A Genova quasi.

di Beppe Di Corrado